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Luca Sinigaglia e Daniele Nardi: legati per sempre alle montagne che amavano
Le montagne, soprattutto quelle più amate, a volte chiedono un tributo estremo a chi le sfida con passione. Le storie di Luca Sinigaglia e Daniele Nardi lo testimoniano in modo tragico ed epico: due alpinisti italiani che hanno vissuto fino in fondo il proprio amore per la montagna, trovando sulle vette tanto sognate il loro destino.
Un sacrificio sul Pik Pobeda
Il Pik Pobeda (7439 m), la vetta più alta del Tian Shan al confine tra Kirghizistan e Cina, illuminato dalla luce dorata del tramonto. Su queste pareti remote Luca Sinigaglia ha affrontato la sua ultima avventura, mossa da altruismo e passione. Nell’agosto 2025 l’alpinista milanese di 49 anni si trovava in spedizione sul Pik Pobeda (noto anche come Jengish Chokusu) quando un evento drammatico ha messo alla prova il suo coraggio. Una compagna di scalata, la russa Natalia Nagovitsyna di 47 anni, era rimasta bloccata in quota da giorni con una gamba fratturata, incapace di scendere . Luca non ha esitato: insieme a un collega tedesco, ha deciso di risalire verso di lei per portarle soccorso, nonostante le condizioni estreme.

Secondo le ricostruzioni, l’incidente era avvenuto intorno al 12 agosto, nei pressi della cima del Pobeda. Natalia, durante la discesa dalla vetta di 7.439 metri, era precipitata e si era ferita gravemente . Sinigaglia e l’altro alpinista hanno raggiunto la collega immobilizzata, trasportando viveri, un sacco a pelo, un fornello e bombole di gas per aiutarla a sopravvivere nell’attesa dei soccorsi. I due hanno passato una notte intera accanto a lei, a quasi settemila metri di quota, esposti al gelo e alla bufera.
Ma la montagna….
L’indomani Luca ha tentato un ulteriore avvicinamento, cercando un percorso alternativo per trascinare in salvo l’infortunata. Ma la montagna, indifferente alla sua determinazione, lo ha sopraffatto: lo sforzo prolungato in altitudine, unito al maltempo implacabile, ha stremato il suo fisico. Sinigaglia ha iniziato a manifestare i sintomi di un edema cerebrale d’alta quota, aggravato dall’ipotermia e dai congelamenti che avevano colpito le sue mani . Tra il 15 e il 16 agosto, attorno ai 6.900 metri di altitudine, il suo corpo non ha più retto. Luca Sinigaglia è morto su quella montagna remota, consumato dalla tempesta e dalla quota letale.

La fine è stata rapida e crudele. “È rimasto bloccato a quota 6.900 metri, intrappolato in una bufera che non gli ha lasciato scampo” hanno riportato le cronache . I compagni, impotenti, hanno deposto il suo corpo in una grotta di neve affinché fosse al riparo fino all’arrivo dei soccorsi . Purtroppo le condizioni meteo proibitive hanno impedito per giorni ogni tentativo di recupero: il maltempo imperversava sul massiccio del Tian Shan, respingendo gli elicotteri e le squadre di alta quota inviate in zona . Il corpo di Luca è rimasto lassù, custodito dalla montagna che lui aveva tanto amato, in attesa di poter essere riportato a valle.
Chi era Luca Sinigallia
Ma chi era Luca Sinigaglia oltre quell’istante fatale? Dietro il gesto eroico di Ferragosto c’era un uomo profondamente appassionato di montagna, sebbene non fosse un alpinista professionista di mestiere. Milanese, esperto informatico nel campo della cybersecurity, dedicava però tutto il suo tempo libero all’alpinismo d’alta quota . Negli anni aveva accumulato un curriculum di tutto rispetto, esplorando vette in ogni angolo del mondo. Era un grande conoscitore dell’Asia centrale e in particolare del Kirghizistan, dove aveva partecipato a diverse spedizioni – anche in solitaria – prima di quella finale sul Pobeda . Nel 2022 aveva conquistato la cima del Pik Korzhenevskaya (7.105 m) nel Pamir, e al ritorno aveva redatto una relazione tecnica per il CAI di Milano, testimonianza della sua competenza e attenzione per la sicurezza .
Il racconto fotografico
Le sue fotografie sui social raccontavano di molte altre ascensioni: dall’Aiguille de Rochefort nel massiccio del Monte Bianco alla Punta Nordend nel gruppo del Monte Rosa; dall’Elbrus nel Caucaso (5.642 m) al Kilimangiaro in Tanzania (5.895 m); e poi ancora i giganti dell’Asia come il Khan Tengri (7.010 m, al confine tra Kazakistan e Kirghizistan) e lo stesso Korzhenevskaya in Tagikistan . Ogni vetta era per lui una sfida ma anche un modo di sentirsi vivo, immerso nella natura estrema che tanto lo affascinava.

Un grande gesto
Chi lo conosceva descrive Luca come una persona generosa, umile e determinata. Non cercava la gloria personale, ma l’esperienza autentica dell’avventura in alta quota e la condivisione con la comunità alpinistica. Il suo ultimo gesto ne è la prova più luminosa: ha messo la vita degli altri davanti alla propria, tentando il tutto per tutto per salvare un’amica in difficoltà. La notizia della sua scomparsa è stata confermata con dolore dalla famiglia. Sui social, la sorella gli ha dedicato parole piene di fierezza e struggimento: “Luca era speciale con noi ma anche con gli amici… È stato un gesto che gli ha fatto onore e che purtroppo non gli ha permesso di tornare da noi” . Amici e compagni di cordata, sconvolti, hanno ricordato che Luca non si tirava mai indietro di fronte a un’emergenza . Il suo altruismo e la sua passione rimarranno un esempio indelebile. Sinigaglia ha trovato la morte nel tentativo di fare la cosa giusta, e il Pik Pobeda – la vetta che lo ha visto cadere – ora custodisce per sempre la storia del suo coraggio.
Daniele Nardi e il sogno del Nanga Parbat
Nubi cupe avvolgono il Nanga Parbat (8126 m), soprannominato la “montagna killer” del Karakorum in Pakistan. Fu su questa montagna imponente che, nell’inverno del 2019, l’alpinista italiano Daniele Nardi trovò il suo destino. La vicenda di Nardi, originario di Sezze in provincia di Latina, presenta sorprendenti affinità con quella di Sinigaglia per la passione sconfinata e il tragico epilogo, sebbene si sia svolta in un contesto diverso: non un salvataggio altruistico, ma il perseguimento ostinato di un sogno alpinistico ai limiti del possibile.

Classe 1976 come Luca
Daniele Nardi era un alpinista di fama, classe 1976 proprio come Luca, animato da un’irrefrenabile aspirazione: essere il primo a scalare il Nanga Parbat in inverno lungo lo Sperone Mummery, una difficile cresta di roccia e ghiaccio mai violata fino ad allora . Alle spalle aveva già una carriera notevole. Nardi era riuscito a salire ben cinque montagne oltre gli ottomila metri (tra cui l’Everest nel 2004 e il K2 nel 2007) senza utilizzare ossigeno supplementare. Aveva esplorato nuove vie in Himalaya e anche sulle Alpi, sperimentando un alpinismo tecnico e innovativo. Eppure, nonostante i successi, sentiva che la sua “via perfetta” doveva ancora essere tracciata. Quella via lo chiamava dal massiccio del Nanga Parbat, la nona montagna più alta della Terra, soprannominata “montagna nuda” e temuta per l’elevato numero di vite che aveva preteso.
I tentativi
Per sette anni consecutivi Daniele è tornato ai piedi di quella montagna durante la stagione più proibitiva, l’inverno, deciso a realizzare il suo sogno malgrado tutto. Già nel 2013 aveva tentato una prima volta con la francese Elisabeth Revol, arrivando a circa 6.450 metri prima di doversi fermare per principio di congelamento. Ci riprovò in solitaria l’anno successivo, poi ancora in spedizione nel 2015. Ogni volta il maltempo feroce e la difficoltà estrema dell’ascesa lo costringevano a tornare indietro, ma Nardi non si dava per vinto. Quella montagna esercitava su di lui un fascino magnetico, un richiamo irresistibile che lui stesso definì “una magnifica ossessione, pericolosa ma sublime”.
Sempre lì…
Nel gennaio 2019 Daniele è di nuovo lì, sul versante Diamir del Nanga Parbat, deciso a non rinunciare. Stavolta con lui c’è un forte alpinista britannico, Tom Ballard (figlio della famosa alpinista Alison Hargreaves), a condividere il rischio e la visione. I due iniziano la salita lungo l’inviolato Sperone Mummery sfidando temperature polari e valanghe, avanzando a poco a poco non appena le finestre di bel tempo lo consentono . È un’impresa ai limiti dell’umano: giorno dopo giorno, Daniele e Tom lottano contro muri di ghiaccio, raffiche di vento gelido e difficoltà tecniche impressionanti su terreno sconosciuto. Di loro ultime notizie certe si hanno il 24 febbraio 2019, quando comunicano dal Campo 4 a circa 6.300 metri che intendono proseguire verso la vetta . Poi il silenzio. Una violenta perturbazione blocca ogni contatto radio e sommerge di neve le tracce del loro passaggio.
Custoditi per l’eternità
In Italia e nel mondo scatta l’allarme: le famiglie, i colleghi alpinisti e le autorità si mobilitano sperando in un miracolo. Nei giorni successivi, gli sforzi di ricerca si scontrano con ostacoli enormi – condizioni meteo proibitive e perfino tensioni politiche nella regione himalayana. Solo il 6 marzo, a quasi due settimane dall’ultimo segnale, accade una tragica scoperta: attraverso un potente teleobiettivo puntato dalla base, il team di soccorso, capitanato dall’espero alpinista spagnolo Alex Txicon individua due sagome immobili sulla parete rocciosa dello Sperone Mummery. Sono i corpi senza vita di Daniele Nardi e Tom Ballard, bloccati lassù dove la montagna li ha fermati. Raggiungerli si rivela impossibile – troppo rischioso mandare uomini su quelle stesse linee infide dove probabilmente un crollo di ghiaccio o una valanga li ha travolti. Dopo giorni di valutazioni, il 9 marzo 2019 le operazioni vengono dichiarate concluse. Daniele e Tom resteranno per sempre sullo Sperone Mummery, che rimane inviolato: la montagna li ha reclamati e custoditi per l’eternità .
Una poesia impronunciabile
La morte di Daniele Nardi ha scosso profondamente l’Italia e la comunità alpinistica internazionale. Ma come per Sinigaglia, anche in questo caso è emerso chiaramente quanto amore e quanta dedizione ci fossero nella sua scelta di spingersi oltre ogni limite. Chi era Daniele Nardi? Un sognatore coraggioso, un atleta capace ma soprattutto un idealista dell’alpinismo. Credeva in un approccio “pulito” e rispettoso alla montagna: convinto che contasse più come si sale che non raggiungere la vetta a ogni costo, ricercava sempre lo stile e l’etica in ogni ascensione. Questa filosofia lo aveva portato a concepire lo Sperone Mummery come la “sua” via: una linea perfetta da salire in armonia con la montagna, senza scorciatoie. “Era inevitabile: quella via era La risposta di Daniele. Alpinistica, ma soprattutto umana”, ha scritto chi lo conosceva . Nardi sentiva infatti un legame profondo, quasi spirituale, con quel gigante di roccia e ghiaccio. “L’alpinismo rende alla mia vita quella poesia che non so pronunciare”, affermava in un’intervista, spiegando che arrampicare gli donava una libertà e una pienezza altrimenti irraggiungibili . Per lui la montagna era esplorazione esteriore e interiore allo stesso tempo, un’avventura dell’anima oltre che del corpo.
Con la tragedia negli occhi
Daniele era pienamente consapevole dei rischi enormi che correva. Aveva visto la tragedia da vicino già in passato – nel 2007, scendendo dal K2, un suo compagno di spedizione (Stefano Zavka) era scomparso in una bufera e non era mai più tornato. Eppure questo non lo fermò. “Avere un ideale e combattere per esso, anche se tutti ti dicono che è follia. Credere nei sogni, anche se sembrano irraggiungibili. Continuare a provarci, perché è più importante della paura di cadere. Vivere per quei sogni”, scriveva Daniele, riassumendo la lezione che sentiva di poter lasciare . Prima di partire per quell’ultima spedizione sul Nanga Parbat, quasi presagendo il rischio estremo, Daniele confidò ai suoi cari il desiderio di essere ricordato semplicemente come “un ragazzo che ha provato a fare una cosa incredibile, impossibile, che però non si è arreso” . E aggiunse un messaggio indirizzato al figlio piccolo, nel caso lui non fosse tornato: “Non fermarti, non arrenderti, datti da fare perché il mondo ha bisogno di persone migliori… Vale la pena farlo” . Parole che oggi suonano come un testamento morale, il segno di una passione vissuta fino all’ultimo respiro.

Amore e destino sulle vette
Le storie di Luca Sinigaglia e Daniele Nardi, pur così diverse nelle circostanze, si incontrano idealmente nel rapporto profondo che entrambi avevano con le montagne amate e nel tragico destino che lì li ha attesi. Entrambi hanno inseguito le loro passioni fino all’estremo, accettando sacrifici e pericoli pur di vivere secondo i propri ideali. Luca si è spinto oltre ogni limite per salvare una vita in montagna; Daniele ha rischiato tutto per realizzare un sogno alpinistico considerato impossibile. In modi diversi, ognuno di loro ha trovato sulla vetta il compimento della propria vita – e, purtroppo, la fine di essa.
Quella sottile linea…
Queste vicende ci ricordano quanto sottile sia la linea tra l’amore per la montagna e la tragedia. C’è una poesia ma anche una crudeltà in questo legame: i panorami maestosi, la libertà dell’aria sottile, la spinta a superare i propri limiti da un lato; dall’altro lato, la natura implacabile, il gelo, la quota che non perdonano errori. Viene da pensare che a volte le montagne troppo amate sembrino voler trattenere con sé proprio coloro che le hanno amate di più. Luca Sinigaglia giace ancora nel gelo del Pik Pobeda, dopo avervi sacrificato la sua esistenza per altruismo . Daniele Nardi riposa per sempre sullo Sperone Mummery del Nanga Parbat, diventato il suo sanctuario finale . Entrambi “legati per sempre alle montagne che amavano”, come in un abbraccio eterno e fatale.
Possono chiedere tutto in cambio
Eppure, al di là della tristezza, resta la luce dei loro esempi. Resta la testimonianza di una passione autentica, quella che spinge l’uomo a esplorare l’estremo e a dare significato alla propria vita inseguendo un ideale. Resta il ricordo di due uomini speciali: Luca, l’alpinista gentile che non ha esitato a dare tutto per un’altra persona, e Daniele, il sognatore tenace che ha inseguito la “via perfetta” fino in fondo. Le loro imprese, le loro parole e il loro coraggio continueranno a ispirare molti, insegnandoci che “vale la pena farlo” – vale la pena vivere intensamente, con amore e rispetto per quelle montagne splendide e terribili che sanno regalare emozioni uniche, ma che possono anche chiedere tutto in cambio.
















